Luciano Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità

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Tempo fa leggendo un’altro libro di Gallino, L’impresa irresponsabile, mi sono persuaso che il peso attribuito al costo del lavoro finisce per rivelarsi un alibi che non aiuta a interrogarsi su alcuni fondamentali. A non discutere, per esempio, di come le imprese italiane sono indietro, e di molto, in fatto di ricerca, e di come le stesse sbandièrano amabilmente la necessità di trovare forme redistributive del reddito d’impresa per finanziare l’innovazione (i cui danari, evidentemente, sottratti alle tasse, inevitabilmente gravano poi su tutti noi…), o della necessità di competere in un “mercato globale” (quanto piacerà loro riempirsi la bocca di questo…) finanziando i corsi di sviluppo del personale con forme reddituali che non penalizzino troppo la già esigua ultima riga del conto economico.

Oppure, che proprio la flessibilità della produzione e il mercato globalizzato tendono a diventare per l’impresa una necessità per sviluppare, a intermittenza aggiungo, come la produzione. Della serie: questo mese ho le commesse e faccio assunzioni, l’altro mese non ho commesse e licenzio. Traducendo il principio che si produce solo su domanda.

Mentre l’idea di responsabilità sociale dell’impresa -del lavoro, quindi- ha a che fare con altro: l’individuo “si” compie “con” il lavoro. Non sta scritto da nessuna parte che l’impresa ha chiuso il cerchio della filiera delle sue attività solo rispondendo semplicemente alle attese dei suoi investitori. Leggendolo ci si convince di una idea “alta” di impresa. Faccio un ulteriore esempio: un giornale, un quotidiano intendo, ha molto di più da riconoscere in tema di responsabilità sociale perchè l’impatto del suo prodotto influisce direttamente sulle coscienze di molti a partire dai propri lettori. La libertà, l’idea di democrazia, non sono robe che si comprano in edicola a un euroeventicents con l’allegato. Questa “roba” è o no altrettanto importante quanto il risultato economico dell’impresa che dà il nome alla testata? Capite la differenza? Dall’impresa ci si aspetta di più perchè è il primo interlocutore “sociale” con il quale l’individuo si confronta e costruisce il suo diritto di compiersi come persona e cittadino. Grande parte dell’innovazione organizzativa degli ultimi cinquant’anni è stata orientata a ridurre la componente di fatica e di mancanza di senso nel lavoro per liberare energia, per renderlo maggiormente produttivo e aggiungere contenuti più alti a questa esperienza centrale nella vita di ciascuno di noi.

Questa spinta al cambiamento e all’evoluzione positiva dei contenuti del lavoro sembra oggi essersi pericolosamente ridotta, e questo è forse il sintomo più preoccupante della progressiva marginalità del lavoro. Perché senza attenzione al “come” e al “perché” si lavora, oltre che alle condizioni alle quali si è disposti a farlo, si fa spazio a un progressivo degrado che ha riflessi anche sull’identità delle persone, sulla loro crescita e sulla loro cittadinanza. Per reagire occorre almeno ricordare che sono in primo luogo la crescita economica e la specializzazione produttiva nei settori avanzati a offrire le migliori opportunità di sviluppo e miglioramento dei contenuti del lavoro, che la diffusione di autonomia decisionale – unita a responsabilità attraverso una revisione dei modelli organizzativi volta a renderli più reattivi ai cambiamenti ambientali – arricchisce il significato di compiti e mansioni attribuiti agli individui, e che sono soprattutto i dirigenti delle nostre imprese responsabili di creare e mantenere un clima organizzativo (fatto anche di regole chiare e rispettate) nel quale la dignità e il valore delle persone siano promossi e rispettati. Ma non mi stancherò mai di ripetere che una azienda che abbia valori fondanti e capace di trasmetterli ha meno bisogno di imbrigliarsi in modelli procedurali. Mentre si assiste ad un deterioramento progressivo della capacità di molti manager o responsabili di produrre idee invece bravissimi a dettare regole (da seduti, magari al caldo). Spostare dal fare bene a fare del bene sembra essere un bel tema in fatto di responsabilità sociale d’impresa e ci sarebbe davvero bisogno di un tempo nuovo di attenzione, di confronto e di proposta.

Trovo di ulteriore istruzione questo “Il lavoro non è una merce” appena pubblicato da Laterza.
In nome della competitività, tutto questo parlare di flessibilità e costo del lavoro ha fatto in modo che negli ultimi quindici anni si sottraessero capitali importanti sottoforma di mancata tassazione e aiuti per le imprese, attribuendole benefici che, per la legge dei vasi comunicanti, ha aumentato il peso delle tasse di chi le paga in busta paga e, non ultimo l’euro, che ha contrubuito – non nascondiamocelo più per favore – alla perdita di capacità di acquisto dei nostri salari. Tra l’altro, l’aumento delle retribuzioni, ormai passa solo per le contrattazioni collettive e/o dalla capacità della politica di vedere (o fare finta di vedere) l’iniquità della condizione di molti cittadini, incidendo finalmente su una più equa ridistribuzione della ricchezza. Non c’è imprenditore, infatti, (a parte quell’individuo dichiaratamente pazzo di Salerno) che sia in grado autonomamente di aumentare gli stipendi.
La risultante, tra l’altro, spiegherebbe la grande disparità in atto nel nostro Paese tra chi si arricchisce sempre di più e di chi paga il fenomeno della sperequazione dei salari. E’ vero, accidenti, che la gente non arriva a fine mese. Chi nega questo, vive in una Babilonia tutta sua. Non solo. Sul fronte “immateriale”, si assiste all’arretramento importante del lavoro come valore sociale. Si e’ distrutto il concetto del lavoro inteso come valore irrinunciabile dell’individuo (costituzionalmente garantito) tradendo proprio l’idea con cui l’individuo compie il suo diritto di cittadinanza inserendosi pienamente e compiutamente nel sistema produttivo, svilendolo di contenuto grazie alla nascita delle tipologie diversificatissime dei contratti di lavoro.

La flessibilità del lavoro si traduce nelle forme di “contratto di lavoro” quantanche queste rientrino a pieno titolo nel diritto del lavoro. In questa molto variegata e assortita definizione si definisce “atipico” tutto quello che non rientra in un contratto a tempo pieno e con durata indeterminata.
Ci sono: i diversi contratti di durata “determinata” che vanno da due settimane a tre anni (ho conosciuto persone che dopo 4 non avevano ancora un’assunzione definitiva); poi i contratti a tempo parziale: all’inglese, i part time; i contratti di lavoro in affitto (!) una volta chiamati interinali oggi ” di somministrazione” -come le medicine- che si possono applicare ad uno o a gruppi di persone; i contratti di collaborazione continuata e continuativa -i famosi co.co.co- che giuridicamente considerano gli individui come liberi professionisti, ma che di fatto ricevono ordini e orari di lavoro veri e propri rendendoli para-subordinati; il lavoro a “progetto”; i lavori con contratto “ripartito”, insomma: dove due persone fanno il lavoro di una; ancora: quello di lavoro intermittente (come il pulsante della luce) o di prestazione occasionale.
Perchè non chiamare con una parola sola tutte queste nuove forme di lavoro? Precarietà. Appunto.

Abbiamo capito tutti che il lavoro è cambiato: questo è un fatto. E sono anche cambiate le regole dell’accesso al lavoro, in specie se è il primo. Ma una cosa è cambiata profondamente: il costo umano della flessibilità. Cosa vuol dire oggi essere flessibili e qual’è il prezzo da pagare quando un datore di lavoro può assumerti anche per una sola settimana? Per una volta, perchè non ci si ferma a pensare alle ferite dell’esistenza che questa flessibilità produce? Perchè, per una volta, una soltanto, non ci si ferma a pensare alle forme d’ansia, all’insicurezza così diffusa oggi e al tradimento – questo sì – di intere generazioni che si affacciano all’acquisizione di quel diritto di cittadinanza di cui scrivevo prima? Ha ancora senso parlare in questo benedetto Paese, di capitale umano? Io credo di no. ALmeno fino a quando non cambierà l’idea che la persona non è identificabile come risorsa produttiva ma un “deposito mobile di forza lavoro erogabile a comando e sempre nel momento giusto”. Proprio come le medicine quando stai male. Proprio come l’interruttore della luce quando c’è buio.

 

Luciano Gallino
Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità
Laterza

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